Cosa ci insegnano le bufale

… si può essere felici non a dispetto delle bufale, ma proprio grazie ad esse, sviluppando un rapporto più sano con la natura, la qualità e la quantità dell’informazione in cui siamo immersi. Impariamo come.

Questo è il compito che si assume Fabio Paglieri, ricercatore presso l’Istituto di Scienze e tecnologie della Cognizione del Cnr di Roma, con il suo ultimo libro La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale, edito da Il Mulino.
Riuscire a centrare questo obiettivo significa gettare le basi per quella che, in modo apparentemente provocatorio, possiamo definire la disinformazione felice, secondo la quale



bisogna considerare le bufale non spazzatura di cui sbarazzarsi, ma piuttosto fantastici laboratori su cui affinare le nostre competenze.

Un primo punto da chiarire è che le bufale sono sempre esistite, solo che adesso, in un mondo in cui l’informazione è svincolata da limiti spaziali, accessibile in tempi ridottissimi e proveniente da una pluralità di fonti, ci sembra che sia La disinformazione felice librocomposta solo ed esclusivamente da notizie false dalle quali guardarsi e delle quali diffidare. Stabilito che le bufale fanno indissolubilmente parte della cosiddetta ecologia dell’informazione, il compito vero è capire come riconoscerle e individuare i meccanismi che ci spingono a considerare alcune notizie più credibili di altre.
Un primo punto di attenzione sta nell’acquisire la consapevolezza del nostro ruolo attivo nel flusso dell’informazione e quindi anche in riferimento alla nascita e alla diffusione delle bufale:



noi tutti, lungi dall’essere soltanto consumatori passivi e imbelli di notizie, siamo anche produttori e ripetitori delle stesse. Il che significa che i cattivi profeti online, spesso e volentieri, siamo noi stessi: altro che vittime!

Stabilito questo, risulta subito più chiaro come non possiamo attribuire allo strumento informatico la responsabilità della disinformazione; internet e i social sono strumenti, mezzi di comunicazione troppo spesso confusi e identificati con i contenuti che veicolano.
Il mezzo non è il contenuto e la presunta pericolosità della tecnologia non è altro che una stortura interpretativa, un alibi per non riconoscere a noi stessi le nostre responsabilità nel mondo dell’informazione e della disinformazione. Internet e i social hanno solo accelerato la diffusione delle notizie e le hanno rese disponibili a tutto il mondo nello stesso momento. Una situazione senza precedenti che complica il quadro del problema che non può essere risolto in modo semplice né tanto meno semplicistico.

La rete è zeppa di bufale? Senza dubbio, però offre anche strumenti potentissimi per smascherarle, strumenti che, fino a pochi decenni fa, sarebbe stato impossibile persino immaginare.

In altre parole, i mezzi che rendono possibile una diffusione rapida e globale di informazione e disinformazione sono gli stessi che ci forniscono gli strumenti con cui allenarci a distinguerle. La potenza dei mezzi di cui disponiamo può e deve essere sfruttata per creare la cassetta degli attrezzi indispensabile per la costruzione della conoscenza che affonda le proprie radici nella capacità di ragionamento.

Il fatto che oggi si abbia accesso a una quantità sterminata di informazioni non ci rende automaticamente competenti nel valutarne l’attendibilità e le conseguenze pratiche: socraticamente, il primo passo della saggezza digitale consiste nel riconoscere la propria ignoranza, accettando senza patemi che, su molti fronti, manchiamo delle risorse conoscitive per valutare in modo completo le informazioni a cui pure abbiamo accesso.

La disinformazione (e l’informazione) a cui abbiamo accesso oggi non è peggiore rispetto a quella dell’era analogica, è solo di più in termini quantitativi.
L’obiettivo non è eliminarla, ma imparare a riconoscerla.
La disinformazione felice passa attraverso l’educazione di tutti e l’innovazione tecnologica deve essere funzionale e al servizio di questo obiettivo. Gli strumenti ci sono, si tratta solo di metterli a disposizione di tutti, dopo aver creato i presupposti per un loro utilizzo consapevole.

L’utente che abbraccia la disinformazione felice affronta la nuova ecologia dell’informazione con lo stesso cipiglio con cui Pollicino si avventura nel bosco, armato delle medesime risorse: intelligenza, prudenza, fantasia, sicurezza di sé, ambizione, e una giusta dose di coraggio. Non lavora solo per il proprio bene, ma anche per quello degli altri; non aspetta che qualcun altro venga a togliergli le castagne dal fuoco, bensì si organizza in prima persona per risolvere situazioni difficili in piena autonomia.



Leggere La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale è un primo passo per costruire consapevolezza, creatività, disciplina, umiltà, senso dell’ironia, educazione e tolleranza, tutte caratteristiche necessarie per imparare a vivere, nell’ecologia dell’informazione, la disinformazione felice che – lo ripetiamo – non può essere eliminata, ma deve essere resa funzionale alla crescita come l’errore da cui si origina.

F. Paglieri, La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale, il Mulino, 2020, pp. 256, € 16.00

Cecilia Mattioli

Lavoro con le persone. Amo leggere. Amo scrivere. Provo entusiasmo per qualsiasi cosa mi faccia crescere e non mi stanco mai di imparare

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