La classe. Ripensare la crisi ripensando le organizzazioni
“Fare naufragio non è ineludibile. Se la rotta è sbagliata si può invertirla. Si possono anche immaginare rotte diverse e nuovi mezzi di trasporto. Oppure si può scendere, esplorare la terra sconosciuta in cui siamo arenati e inventare nuovi modi per abitarla.”
È questo il presupposto dal quale nasce “La classe” il libro di Enrico Parsi. Una analisi molto profonda, lucida e acuta della situazione di stallo, di insoddisfazione, di crisi, nella quale si trovano molte aziende. Da molto tempo di parla di crisi, ma troppo spesso la si considera esclusivamente nella sua componente economica. Come se non riguardasse anche la cultura, le logiche organizzative, il modo in cui valutiamo i nostri comportamenti e la responsabilità sociale che abbiamo, o dovremmo avere, sia come individui che come organizzazioni.
“ La crisi non è un dato di natura. Non è capitata per caso. Non è un’onda anomala. È una crisi delle nostre relazioni. Per questo reagire significa anche osservare meglio i luoghi della nostra vita, le organizzazioni in cui abitiamo e viviamo, per capire se e come producono e alimentano il disagio e i pessimi risultati economici che sconvolgono l’esistenza di molti, ma non di tutti.”
Partire dalla classe significa partire dal primo contesto strutturato e organizzato con il quale abbiamo a che fare da bambini, “perché la disposizione di un’aula scolastica somiglia a un organigramma”. Una metafora che ci aiuta a capire come l’economia sia ormai l’unica unità di misura per valutare se ciò che facciamo, che pensiamo, che impariamo, che condividiamo ha senso. La classe, il cui significato generico è ‘raggruppamento’, è il primo contesto di separazione all’interno del quale siamo inseriti. Il primo di una lunga serie, che ci accompagna nel mondo del lavoro, nella società, in tutti gli ambiti professionali e personali. Non a caso si parla di classe sociale, classe dirigente, classe operaia, classe politica, classe dominante; si viaggia in prima, seconda o terza classe e potrei andare avanti ancora a lungo. Le strutture organizzative all’interno delle quali viviamo, studiamo, lavoriamo auspicano e mitizzano la ‘contaminazione’, ma di fatto agiscono nella direzione di una sempre più agognata separazione e individualizzazione. I legami e le dinamiche sociali appaiono come del tutto irrilevanti, in nome di una sempre più esasperata produttività e di una efficienza da perseguire costi quello che costi.
Non ci si prende più il tempo per riflettere, per pensare, perché si agisce sempre in condizioni di emergenza. “Tutti siamo sottoposti al rischio di uno slittamento semantico tra in concetto di responsabilità e quello di colpa.” L’esperienza non è più un valore, ma solo una zavorra che si traduce in una insensata coazione a ripetere in nome della quale si usano sempre gli stessi linguaggi, si fanno sempre le stesse cose, si pensa utilizzando sempre gli stessi schemi anche quando sono palesemente superati e desueti. Sì, perché “se non ci si può permettere di sbagliare, non ci si può permettere di innovare”.
Cambiamento e innovazione. Due concetti estremamente importanti, ma altrettanto mitizzati, che non saranno possibili finché non entreremo nella logica che ripensare le organizzazioni significa anche ripensare il linguaggio che le definisce e le attraversa, del quale sono spesso artefici o vittime inconsapevoli.
James Hillman, nel libro ‘Le forme del potere’ sostiene che “per diventare consapevoli di qualunque cosa bisogna, in primo luogo, usare le parole in modo appropriato, perché le parole sono cariche di implicazioni”.
Secondo Parsi, il primo passo per ripensare le organizzazioni è ripensare la terminologia che in esse si utilizza. Del resto, già Giustiniano, nelle sue Istituzioni, sosteneva che nomina sunt consequentia rerum (Giust. Institutiones, II,7,3) ovvero che c’è una corrispondenza molto forte tra le cose e le parole che usiamo per descriverle. Ripensare le parole con cui le aziende si esprimono significa ripensare le aziende stesse. Le parole hanno una funzione precisa e non conoscerla significa creare fraintendimenti concettuali che si traducono in comportamenti anch’essi concettualmente errati. Ripensare le parole che si usano, ma anche quelle che non si usano, perché descrivono processi e realtà che l’azienda non conosce o non utilizza. Un esempio di termine poco usato, sia in ambito linguistico che organizzativo, è ‘cultura’. Il tempo per studiare non è tempo immediatamente produttivo, quindi automaticamente diventa tempo perso. La formazione e lo studio non sono contemplati in orario di lavoro, ma sono demandati all’interesse personale del lavoratore e devono essere perseguiti nel proprio tempo di vita. Come se rimanere aggiornati e studiare ciò che accade nel mondo fossero attività del singolo dalle quali l’azienda non può trarre alcun beneficio.
Questo è solo uno dei tanti spunti di riflessione contenuti in questo libro che definirei di filosofia, di sociologia, di economia, ma soprattutto di vita. Un libro che dovrebbero leggere tutti, imprenditori e non, perché ciascuno è responsabile di ciò che è, ma anche di ciò che non è. Tutti siamo potenziali attori del cambiamento, tutti possiamo contribuire a migliorare situazioni che non ci soddisfano.
“Un libro per ripensare i luoghi dove si impreziosisce o si svuota di senso la nostra vita, fuggendo dalle trappole dell’aziendalismo dilagante.”
E. Parsi, La classe, Guerini e associati, 2017, pp. 240, € 16.00