The Post. “La stampa serve chi è governato, non chi governa”
Steven Spielberg questa volta ci racconta una storia vera, quella dei Pentagon Papers, ovvero la fuga di notizie che ha rivelato al mondo i segreti governativi relativi alla Guerra del Vietnam. Raccolti nelle 7000 pagine di uno studio fatto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, relativo agli anni dal 1945 al 1967, raccontano la verità su una guerra assurda e inutile che la presidenza americana continuava a sostenere nonostante fosse persa.
Siamo nel 1971 e “The Post” è The Washington Post, il giornale di cui Kay Graham (una straordinaria Meryl Streep) è alla guida, suo malgrado, a causa della morte del marito suicida. Ben Bradlee (Tom Hanks, bravissimo come sempre) è il direttore che la Graham sceglie per il suo giornale. I due hanno trascorsi molto diversi, ma si trovano a dover fronteggiare una situazione di cruciale importanza. In un momento il cui il presidente Nixon era disposto a fare qualsiasi cosa per imbavagliare la pubblica informazione, il New York Times è il primo a pubblicare i contenuti di questo studio segreto e riceve un’ingiunzione della Corte Suprema che impedisce al giornale di continuare. È a questo punto che entrano in gioco Kay Graham e Ben Bradlee che, contro tutto e tutti, decidono di proseguire nella divulgazione delle notizie top secret sul Washington Post. Una decisione che, di fatto, segna una svolta importante nell’affrancamento del diritto di informazione dalle ingerenze della Casa Bianca.
Sono passati più di cinquant’anni da quello scandalo, seguito a ruota dal Watergate, ma direi che affronta un tema di grandissima attualità. La libertà e il diritto di informazione appartengono tuttora alla dimensione del quotidiano e dipendono sempre di più dall’etica professionale, dalle scelte morali e dal senso del dovere di chi fa informazione. Le notizie false, che oggi chiamiamo fake news, o anche solo manipolate, imprecise, parziali, sono quanto mai pericolose, a maggior ragione in una realtà come quella attuale in cui chiunque ha accesso a qualsiasi cosa, sia dalla parte del produttore che da quella del fruitore. Prima che internet e i social prendessero così tanto piede, i giornali e i media in generale, avevano il compito di diffondere e di rendere fruibili le notizie a cui avevano accesso. Rendere fruibili, che non significa travisare o falsificare. Oggi la situazione è opposta. La sfida non è più reperire le informazioni, ma orientarsi all’interno di un sovraccarico in cui la difficoltà è riconoscere cosa è vero e cosa non lo è. Oggi il compito di chi fa informazione, ovvero di tutti nessuno escluso, è tenere alto il livello di attenzione su tutto quanto è accessibile. La vera sfida sta nella capacità di porre domande, di approcciare tutto ciò che leggiamo o ascoltiamo con il distacco critico che occorre per interpretare correttamente.
L’etica professionale, la correttezza, il senso del dovere che servono oggi non sono diversi da quelli che occorrevano sulla carta stampata, alla radio o alla televisione. Tutti i media sono mezzi di comunicazione, mezzi. E i mezzi sono gestiti dalle persone. Internet e i social sono i mezzi moderni e, come quelli del passato, sono fatti dalle persone. Siamo noi che produciamo i contenuti, siamo noi che decidiamo come utilizzarli, siamo noi che ci assumiamo la responsabilità di ciò che comunichiamo e di come interpretiamo le notizie. I mezzi non hanno la responsabilità dei contenuti. Intendo dire che qualsiasi notizia o informazione può essere divulgata con qualsiasi mezzo, del passato o attuale che sia. La responsabilità del contenuto non è nel mezzo. Il fatto che oggi chiunque abbia libero accesso a qualsiasi notizia e il fatto che ciascuno di noi sia fonte di informazione per qualcun altro ha solo amplificato l’importanza dell’etica della comunicazione.