La scrittura o la vita. Dieci incontri dentro la letteratura
“La scrittura o la vita” è il titolo del libro con il quale Annalena Benini ci racconta il suo incontro con dieci scrittori italiani, per i quali il titolo non è affatto un modo di dire.
I dieci scrittori e scrittrici che si raccontano sono Sandro Veronesi, Michele Mari, Valeria Parrella, Domenico Starnone, Francesco Piccolo, Patrizia Cavalli, Edoardo Albinati, Melania Mazzucco, Alessandro Piperno e Walter Siti.
Prima di queste dieci interviste, Annalena Benini ci racconta qual è la sua idea di “vocazione” che è anche il parametro secondo il quale ha scelto questi dieci autori. Hanno la sua stessa idea di vocazione alla scrittura e sono stati
“disposti a spiegarla, a raccontare di questo mestiere che è il loro padrone e a individuare il momento in cui sono riusciti a dire: «Io sono uno scrittore»”
Per tutti vale quello che nel 1919 scrisse Marina Cvetaeva:
“Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere. Alla domanda sullo scopo – risposta sulla causa. E non può essercene altra.”
La vocazione per la scrittura è qualcosa che viene molto prima del mestiere e continua fino a trasformarsi in una dimensione alla quale è impossibile sottrarsi. È uno stato d’animo che porta a staccarsi da tutto e da tutti per entrare in una realtà che
“dipende interamente dalle parole, dalle pagine, dai personaggi che si è riusciti o non riusciti a far camminare, dalla storia che gira dentro la testa, da una frase, dalla poesia che ha bisogno di essere versata sul foglio, come la scultura che è già dentro il marmo e va tirata fuori.”
Scrivere è meraviglioso, ma è difficile e a tratti pericoloso.
Sandro Veronesi pensa che “le qualità che le persone sono più orgogliose di mostrare sono proprio quelle che non possiedono” e quindi a chiunque gli chieda che mestiere faccia, risponde: “L’oftalmologo.”
Così come Alessandro Piperno dice di essere Professore, mai Scrittore, nonostante si metta nella condizione di avere sempre qualcosa da scrivere; finito un libro inizia immediatamente a predisporre tutto ciò che occorre per scrivere il successivo. Il terzo è Walter Siti che dello scrivere afferma: “Io non l’ho mai preso per un mestiere, tanto che anche adesso quando mi chiedono che lavoro faccio, dico «il pensionato».”
Michele Mari è completamente soggiogato da un assioma familiare secondo cui “se sei intelligente, devi essere triste”; una frase che ha rappresentato e rappresenta tuttora la linea guida del suo vivere e, del suo scrivere.
Valeria Parrella è simpaticissima e ci racconta che ha iniziato a scrivere a sei anni, per un atto di ribellione nei confronti della maestra che, per Natale, le aveva assegnato da imparare a memoria una poesia che a lei non piaceva; i genitori, liberi ma anche normativi, le dissero che avrebbe dovuto imparala lo stesso e Valeria, pur di non cedere, decise che ne avrebbe composta una sua. Col risultato che le poesie da imparare a memoria a quel punto erano due.
Francesco Piccolo fin da ragazzo scriveva vergognandosi di scrivere. Lo faceva di nascosto da tutti, rinunciando alle vacanze, alle uscite, agli amici, per dedicare tutto il tempo a sua disposizione per leggere tutto quello che fino ad allora non aveva letto, ben consapevole che si arriva alla scrittura solo passando attraverso la lettura.
Patrizia Cavalli deve tutto alla sua amicizia con Elsa Morante, della quale temeva il giudizio a tal punto da non avere il coraggio di mostrarle le sue poesie e da decidere di scriverne apposta per sottoporle al giudizio della Morante. Patrizia Cavalli ha anche una sua personale teoria relativamente all’uso delle parole; sostiene che le parole sono tutte belle e che non esistono sinonimi.
“È un’idea ridicola che esistano i sinonimi. Le parole possono solo assomigliarsi parzialmente. Ogni parola ha la sua proprietà, quando hai detto la parola che è proprio quella, tu lo sai, lo senti.”
Edoardo Albinati ci confessa la disperazione con la quale ha scritto ‘La scuola cattolica’ con cui ha vinto il Premio Strega e Melania Mazzucco dichiara
“Ho paura di scrivere a volte, ho in testa romanzi che vorrei scrivere ma che ho timore di scrivere perché poi le cose accadono. La letteratura si invera e questo è molto inquietante.”
Tutti questi scrittori vivono la loro condizione come inevitabile, ma in un certo senso la subiscono, nel senso che ne diventano dipendenti. Annalena Benini è molto brava a mettere in evidenza l’inevitabilità dello scrivere per i suoi dieci intervistati. La scrittura diventa come una droga della quale si fa uso ma senza dichiararlo apertamente, almeno all’inizio. Nessuno di loro ha iniziato a scrivere con l’intenzione di creare una condizione peggiorativa del loro essere. Si assumono droghe o medicine con l’intenzione di stare meglio e lo stesso vale per la scrittura. Scrivere per tutti loro è stato un rifugio, un uscire da una dimensione inappagante, un modo per colmare una mancanza affettiva o professionale che fosse. Poi, pian piano la dipendenza, il bisogno di scrivere sempre di più, il non poterne fare a meno. Vocazione, fede, disciplina, sacrificio, fatica, sono le parole che escono quando si parla di cosa sia la scrittura per questi dieci intervistati. Ma anche bisogno, rifugio, salvezza, riscatto, voglia di uscire dalla vita reale claustrofobica, per entrare in un’altra non più facile, ma sicuramente più appagante.
“Un mestiere abbastanza difficile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo”
lo definisce Natalia Ginzburg. Un mestiere abbastanza difficile, ma il più bello che ci sia al mondo, per i dieci di “La scrittura o la vita”.
A. Benini, La scrittura o la vita, Rizzoli, 2018, pp 247, € 20.00