Birdman: la fatica di vestire i panni del supereroe

Non avevo mai sentito parlare di questo film. È stato Rudy Bandiera a dirmi che lo ha visto di recente e che gli è sembrato un film semplicemente perfetto. Ne abbiamo parlato per un po’ e mi sono incuriosita a tal punto che ho deciso di guardarlo.
È la storia di Riggan Thomson (Michael Keaton), un attore imprigionato nel supereroe Birdman che gli ha dato la fama assoluta, un successo planetario. Vuole liberarsi da questa prigionia e riscattarsi, dimostrando a tutto il mondo di essere in grado di fare altro e sceglie la strada più difficile. Decide di mettere in scena la trasposizione teatrale del racconto di Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. È la volontà di un doppio riscatto: passare dal cinema al teatro con uno spettacolo di cui è regista e protagonista. Mancano pochi giorni al debutto e i dubbi sul proprio talento, le insicurezze come padre e uomo e la paura di fallire precipitano Riggan in un vortice di fantasmi che popolano con sempre maggior insistenza la sua mente. Un’insistenza tale da materializzarsi in un dialogo serrato con il suo supereroe che si ripresenta (in realtà non lo ha mai abbandonato per davvero) come l’alternativa più facile. Diventa un vero problema il difficile rapporto con la figlia Sam (Emma Stone), appena uscita da un centro di recupero. C’è il confronto con un attore affermato e spavaldo, Mike Shiner (Edward Norton), che viene scritturato per cercare di salvare lo spettacolo da un naufragio che sembra annunciato ancora prima del debutto ufficiale. Perché mettere in scena un racconto di Carver? Perché è una grande passione di Riggan Thomson da sempre e perché allestire una commedia tratta da un racconto di Raymond Carver è una sfida estremamente difficile e quasi assurda. È come se la scelta di un tema con un simile coefficiente di difficoltà alzasse l’asticella del riscatto ai limiti del possibile. È come se l’attore/regista/protagonista ci dicesse (e dicesse a se stesso) che solo in queso modo può davvero dimostrare al mondo di esistere anche senza le piume dell’uomo uccello che lo aveva consacrato nell’Olimpo di Broadway. Come va a finire non ve lo racconto, anche se, probabilmente, la maggior parte di voi ha già visto il film e quindi lo sa bene. Però voglio fare alcune riflessioni. Subito dopo averlo visto, devo dire che sono rimasta abbastanza perplessa. Mi sono resa conto di aver visto un bel film, ma allo stesso tempo, così a caldo, non ero in grado di apprezzarlo del tutto. Anzi, il primo pensiero è stato che non mi era piaciuto. Avrei voluto smettere di pensarci per un po’ in modo da prendere il distacco sufficiente per elaborarlo, ma, di fatto, continuava a ronzarmi nella testa; per la sua struttura, ma soprattutto per la tematica che affronta. E alla fine devo ammettere che è davvero un gran film.
A thing is a thing and not what is said of that thing”. “Una cosa è una cosa e non quel che si dice di quella cosa”. È la citazione che Riggan ha appesa allo specchio del suo camerino ed è in questo monito che è racchiuso il senso del film. Il tema del riscatto è, in realtà, il tema dell’accettazione da parte di se stessi e degli altri. C’è una differenza sostanziale tra ciò che siamo e ciò che gli altri dicono che siamo. È la battaglia dell’esistenza, quella di cui la figlia Sam lo costringe a prendere coscienza in un corpo a corpo durissimo. È la figlia problematica completamente imbevuta dei social e che crede profondamente che la sola esistenza autentica, vera, sia quella che si vede su Facebook, Twitter e Youtube. Se non sei sui social non esisti, questa è la lettura che dell’esistenza danno le generazioni di cui Sam è parte. È la ragazzina che deride il padre per questa sua inutile ricerca di affermazione e di essere preso sul serio, perché ‘tu non conti niente, qualunque cosa tu faccia non importa a nessuno’. Ciò che non si vede online non esiste. Potremmo definirlo il dialogo con la modernità, la presa di coscienza che il modo di ragionare del vecchio supereroe in cerca di riscatto è fuori luogo e fuori tempo. Davvero siamo solo quello che gli altri dicono che noi siamo? Davvero la nostra unica identità possibile è quella filtrata del mondo che ci circonda? Davvero non possiamo riconoscere a noi stessi il diritto di esistere a prescindere dagli altri? Davvero non è possibile che “una cosa sia una cosa” semplicemente in quanto cosa? Un tema di riflessione molto importante al quale credo sia fondamentale dedicare tempo ed energia.

Cecilia Mattioli

Lavoro con le persone. Amo leggere. Amo scrivere. Provo entusiasmo per qualsiasi cosa mi faccia crescere e non mi stanco mai di imparare

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